domenica 27 gennaio 2013

Tabula Rasa


Un día cualquiera, a la hora de comer, les dije: Má, Pá, la semana que viene me piro de aquí.
Mi padre contestó: me parece muy bien, y a dónde te vas? Y es que nunca me toma en serio.
A Barcelona.
Se pusieron a reír. Luego me miraron en los ojos. Yo me había quedado en silencio. Se hicieron serios.

Eran finales de enero, tenía 23 años. Estaba recién licenciada, tenía algunos kilos y muchas ilusiones demás y llevaba años deseando salir de aquella ciudad. El día uno de febrero me fui.

Recuerdo que durante los primeros tres años de mi vida aquí pasaba casi a diario delante de la Sagrada Familia. Bajaba Lepanto a toda pastilla en bici, entraba en el Paseo de Gaudí y de ahí en diagonal hasta la Plaza de la Sagrada. Me paraba un momento, ponía el pié en el suelo, la miraba de abajo a arriba. Tomaba un respiro, me llenaba de Maravilla, y seguía con mi bici por Provenza hasta donde fuera.

A veces me gustaría hacer un reset de los casi siete años que llevo en esta ciudad, volver a empezar desde cero, hacer tabula rasa de todo lo que viví para volver otra vez a conocerlo y experimentarlo todo con la misma pureza de un niño, sin tener recuerdos buenos y malos que se despiertan a cada rato, cualquier cosa esté haciendo o esté donde esté. Todo nuevo de nuevo.

Entonces esta noche, al volver en bicing desde el Gótico, después de despedirme de Judith y los demás, no tuve ganas de volver enseguida a casa. Subí hasta la Sagrada Familia y me paré a mirarla, como había hecho todas aquellas veces durante por lo menos tres años. Intentando mirarla como si fuera la chica recién llegada de Italia que algún día fui.

Y luego bajé -también a toda pastilla- hasta la playa, por Marina. A lo largo del camino vi: a un magrebí vomitando por las aceras; a una cuarentona rubia platino en tacón de aguja que andaba agarrada a un hombre ya que casi no se podía mantener de pié; a tres chicas jóvenes y lindas que se reían de algo mientras iban vete a saber donde.

Y de repente sentí ternura y pena. Ternura y pena hacia el magrebí que se había tomado la noche demasiado a pecho, hacia la cuarentona rubia platino que extrañaba sin duda sus años de oro, hacia las jovencitas que habían pasado horas arreglándose antes de salir, con la esperanza de que sus vidas iban a ser mejores a partir de esa noche.
Sentí pena y ternura hacia mi misma que me la pasaba pedaleando hasta la playa en un sábado por la noche, cuando se supone que una persona normal de treinta años y en salud tendría que estar con una copa en la mano y rodeada de amigos en algún local ruidoso; pena y ternura hacia las personas que se me habían acercado a lo largo de mi vida, aquellas que habían llegado tan cerca que habían terminado por quemarse, tan cerca que habían logrado ver con sus propios ojos como yo misma me iba quemando poco a poco.

En la playa había movimiento de gente y se escuchaba el tunz tunz de las discotecas alrededor, tan fuerte que sentí como si estuviera con ese ruido en los auriculares. Admití que la idea de bajar a respirar un poco la brisa del mar no había sido la más acertada. Me quedé unos minutos observando las olas que rugían potentes, después di media vuelta y subí otra vez por Marina, dirección casa.
Al pasar por la parada del metro vi a decenas de personas que bajaban por Almogavers hacia Razzmatazz. Pensé en qué sería lo que estaría haciendo en esos momentos la gente que andaba por ahí de fiesta.

Pidiendo una cerveza en un bar. Esperando a los colegas. Haciendo cola para entrar en una discoteca. Entrándole a alguien. Escribiéndole un whatsapp al potencial ligue. Ligando. Enamorándose. Peleándose. Dejándose. Tomando un gin tonic. Pagándole una copa a la tía esta, a ver si cae. Tonteando con el de la barra. Metiéndose una raya de coca en el baño. Follando en el baño. Meando en el baño. Llorando por verle a él con otra tía más guapa. Pintándose los labios. Intentando llamar a alguien que no contesta. Hablando de cosas sin importancia, que al día siguiente no recordarían. Hablando con personas sin importancia, que al día siguiente no recordarían. Tomando otra copa. Metiéndose otra raya. Entrándole a otra persona.

En cambio, yo estaba volviendo a casa en bicing, después de ir a mirar la Sagrada Familia y bajar hasta la playa, en el intento no muy bien logrado de volver a sentirme nueva en esta ciudad, virgen de experiencias, desnuda de recuerdos.

...

(La crisis de los treinta años me ha cogido preparada: llevo treinta años en crisis. Hace tiempo ya que he aprendido a llevarlo.)


lunedì 21 gennaio 2013

Da "I Diari di Barcellona" (gennaio 2008): Ai miei Amori.


Dei giorni a seguire ricordo il doloroso bisogno di averti ancora con me, dentro di me, tra le mie gambe.

E invece tu non c’eri, non c’era niente, svanito nel nulla, tutto.
Avrei dimenticato, poi, col tempo, ma ricordo il pensiero insopportabile che non riuscivo a scacciare: non è giusto.

Avrei dimenticato, poi. Col tempo.

Per il tuo accento. Perché eri malvagio.
Per quegli occhi bugiardi, per i miei occhi che baciavi.
Per i miei sguardi che ti frugavano l'anima. Per le tue parole evasive.
Per la mia bicicletta e le mie gonne corte, per le mie gambe nude sotto le tue mani.

Perché eri malvagio.

Perché ci avevamo creduto, ci eravamo immaginati insieme, ci avevamo provato. Perché abbiamo fallito, perché ci siamo feriti. Ci siamo amati, ci siamo fatti del male.
Ci siamo assassinati. Perché era amore vero. Perché non lo era.

Perché io ero cattiva. Perché tu eri malvagio. Per il tuo accento. Per il tuo accento.

Per il taxi che presi alle sei del mattino per correre da te, perché imploravo il tassista, per favore più veloce, mi porti da lui, sono innamorata!
Per il suo sguardo ironico, paterno: nena, non ti preoccupare, tre minuti e arriviamo.

Perché abbiamo solo dormito abbracciati. Perchè ci siamo spogliati e sbranati come bestie selvatiche.
Perché ti ho chiamato, ubriaca, ti voglio vedere, perché non arrivavi.

Per il tuo accento, perché ero cattiva.
Perché eri malvagio.

Perché ridevamo fino a lasciarci il fiato, perchè mi hai fatto piangere, perchè l’ho fatto anch’io.
Perché ci credevamo, perché non ci abbiamo sperato. Perché non importava.

Perché avrei dato tutto per essere chiusa tra quelle braccia.
Perché mi sei sfuggito.
Perché non mi sono fatta trovare.
Perché ci siamo presi e ci siamo persi.

Perché eri malvagio. Per il tuo accento. Per il tuo accento.

Per come facevamo l’amore, per come abbiamo fatto sesso. Per come ci siamo sentiti ridicoli quando non ci siamo riusciti.
Per le carezze sulla schiena, per il tuo sedere morbido, per la mia pancia bianca.
Per il tuo tatuaggio sotto il braccio. Per come prendevi in giro il mio.

Perché ci siamo presi e ci siamo persi, ci siamo trovati ci siamo afferrati ci siamo lasciati ci siamo cercati ci siamo sfuggiti ci siamo rifiutati ci siamo rinnegati. Perché ci siamo voluti bene, perché ci siamo massacrati.

Per il libro che mi hai letto, per le parole che ti ho regalato. Per il vino, per la notte, per il jazz. Per il vino.
Per i tuoi occhi bugiardi, perchè eri malvagio. Perché ero cattiva.
Per il tuo accento.
Per la tua bocca, ovunque la tua bocca. Per le mie urla.
E la tua bocca, ovunque.

Avrei dimenticato, poi, con il tempo. Sono una creatura fragile e ho bisogno di proteggermi dal dolore, dimenticando.
E avrei dimenticato, poi. Ma ricordo intatta quella sensazione: non è giusto.

Per il tuo amore, per la mia rabbia, per la nostra età, per il tuo Paese, per i miei capricci, per i miei segreti, per le tue bugie, per il tuo corpo, dentro il mio. Dentro il mio.

Per il tuo corpo dentro il mio.

Per il tuo accento. Perché eri malvagio. Perché ero cattiva.
Per il tuo accento.

Per tutte queste cose ti ho amato.

 

martedì 18 dicembre 2012

Da "I Diari di Barcellona" (estate 2010): Il raffreddore

Qualche giorno fa, mentre andavo in bici, mi ha colta di sorpresa un temporale estivo. Un qualche folletto dei cieli deve essersi divertito a strizzare giù tutte le nuvole mentre io passavo sotto, un po' ridendo, un po' preoccupata, perché pioveva così forte che facevo fatica persino a tenere gli occhi aperti.

Così adesso sono raffreddata.

E quando sono raffreddata come adesso, è come se una pellicola trasparente mi separasse dal resto del mondo. Una pellicola di quelle che si usano per coprire l'anguria quando la apri e poi te ne resta metà, e la devi rimettere in frigo, e la copri perché lo strato superficiale non si secchi. A volte poi si secca lo stesso e allora, quando la tiri fuori dal frigo, con il coltello grande affilato ne tagli via un millimetro e mezzo, due al massimo. Mia madre lo faceva sempre, con una precisione da chirurgo: un taglio netto, con un unico movimento di mano. Commovente.
A me non succede quasi mai, perché da quando vivo da sola compro sempre metà anguria, così già che ci sono me la faccio aprire al momento e posso anche vedere se è buona. Ne compro solo metà perché dico, io da sola non la mangerò mica tutta, poi invece nel giro di due giorni la finisco.

Dunque, adesso c'è questa pellicola trasparente per alimenti tra me e il mondo.

Sono i momenti che preferisco. La lucidità mentale è ai minimi livelli. Metto su Joan Miquel Oliver e sono sicura di capire tutto, ma proprio tutto nel profondo, tutta la sua meravigliosa foresta di simboli. Non lo capisco a livello cosciente, è più che altro una percezione, una sensazione di freschetto sulla pelle, il brivido di una piuma bianca che scivola sul rosa delicato dell'interno del braccio.

E in questo fluttuare di sensi come potrei aver voglia di recriminare?
Abbandono le intenzioni recriminatorie e mi abbandono a mia volta, e ritorno al mio stato primordiale.
Penso in italiano.
Galleggio, sospesa nell'atmosfera parallela del raffreddore.

Non ci inganniamo: la vita è una corsa ad ostacoli senza interruzioni, e io non mi sento ancora allenata a dovere. Che fatica. Ci sono milioni, milioni di cose che non vanno, che mi fanno arrabbiare, che vorrei ma non posso cambiare.

Per fortuna che, di tanto in tanto, interviene il raffreddore e mi rimette in pace col mondo.



Soundtrack: Joan Miquel Oliver, Ryanair



martedì 9 ottobre 2012

Los Adioses.

Cuando el verano del año pasado tuve que regalar mi bicicleta, me prometí a mi misma: le voy a dedicar un post. Pero luego no se me ocurría nada bastante bonito, bastante nostálgico y bastante divertido como para celebrarla, de repente me nacía alguna idea pero cuando la formulaba por escrito ya no me parecía lo suficientemente fuerte, en fin, que nunca lo hice.

Pasó lo mismo esta primavera, cuando me operé de los ojos y abandoné para siempre mis gafas en el fondo del cajón. Tampoco escribí nada.

Ahora voy a dejar mi querido piso, y "el barrio" ya no será mi barrio en un par de semanas nomás, y ya son tantos los adioses que tengo que dar, que se me acumulan las penas en el alma y van saliendo solas y se van acomodando en esta hoja de papel virtual, moviendo mis dedos sobre el teclado sin pasar antes por el control/censura de mi cerebro, míralas, ahí van escribiéndose a si mismas, sin saber muy bien ni ellas en qué forma se van a poner. Empecemos.

Gracias y adiós a ti, compañera, luchadora, bicicleta adorada que me has acompañado en todas las aventuras y desventuras de mis primeros cinco años y pico en Barcelona. Eras lo más guay que existe en este mundo.
¿Recuerdas las veces que te dejaba sola, atada en plaza Rejal pues volvía a casa ni siquiera sabía cómo ni con quién, y luego al día siguiente por la tarde tenía que estar reflexionando entre 3 y 25 minutos (dependiendo del estado) para recordarme dónde había sido la última vez que te había visto, y te volvía a buscar igual que vuelve un marido que se olvida a su mujer en la estación de servicio de la autopista, y tú ahí estabas, noble, digna, impecable, sin regañarme nunca, y volvías a concederme el honor de pedalearte hasta nuestro hogar? ¡Qué tiempos aquellos!

Y cuando volvíamos hasta el Guinardó después de que yo trabajara en el restaurante – y saliera de fiesta con los compañeros del restaurante- toda la noche, subiendo lentamente la ciudad mientras el sol nacía, a principios de verano, cuando hace fresquito todavía al amanecer pero ya se huele una esperanza de calor que está a punto de poseer el aire... ¿recuerdas?

Y cuando aquel día subí las Ramblas hasta Plaza Catalunya con Marcos, yo agarrándote de un lado del manillar y él del otro, las otras manos juntas encima de tu sillín... ¿recuerdas? Fue uno de los momentos más bonitos de mi vida. Y tú estabas ahí.

¿Y cuando corría del trabajo al Casal, y cuando corría de casa a clase de Foto, y cuando corría de clase de Foto a no sé dónde ya que siempre íbamos corriendo a todas partes, y aquella vez que tuvimos que dormir en la playa porque me había dejado las llaves de casa encerradas en el trabajo y te intentaron robar (y no lo consiguieron, por supuesto, ya que yo dormía como duermen los gatos, con un ojo abierto y vigilando), y aquella vez que nos atropelló una furgoneta y tú te quedaste toda torcida, que te tuve que llevar al taller, mientras yo milagrosamente no me hice ni un rasguño, y aquella vez que casi atropellé a un abuelo y para esquivarlo me tiré (nos tiré) de un lado de la calle, planeando en un vuelo que se parecía a algo entre un paso de break dance y una acrobacia del Cirque du Soleil...?

Y cuántas, cuántas cosas más podría seguir contando. Fue muy dura decisión, la que tomé, cuando te dejé en el taller de Alex el brasileño, el de al lado de Santa Caterina, el que ya en los últimos meses te veía más a menudo a ti que a sus novias, y que cada vez con el mismo cariño y la misma paciencia volvía a arreglar lo que algún maldito vándalo borracho que andaba por ahí te había desarreglado. Un año viviendo en la calle no lo soporta nadie, ni siquiera una guerrera como tú, especialmente si es una calle del Bronx de Barcelona.

Ahora voy en bicing - sobre el que no me voy a expresar ahora ya que merecería un post todo para si - algún día volveré seguramente a tener una bicicleta "mía", pero no cabe duda de que nunca ninguna (ni siquiera una Brompton blanca como la que me gustaba tanto) podrá llegar a ocupar tu sitio en mi corazón. Y aquí lo dejo porque me pongo demasiado triste.

Gracias y adiós, gafas, la verdad es que no os extraño para nada, pero fuisteis parte de mi durante muchos años y reconozco que os debería una despedida con algo de sentimiento, además que aún menos extraño a las lentillas, y de hecho está claro que nunca, ni bajo tortura, escribiré ningún gracias y ningún adiós con sentimiento para ellas.

Y pisito, pisito hermoso del que me enamoré nomás entrar y en el que he vivido feliz durante dos años y medio, ¡cuántas y cuán inenarrables cosas han pasado dentro de estos cuatro muros!
Las siestas en el sofá con la brisa que entraba por la puerta ventana abierta, las visitas de mis padres -madre cocinando y padre arreglando cosas todo el tiempo, que parecía que se las inventara con tanto de estar ocupado arreglando- los amigos que venían en el verano convirtiéndote en un hostal, la Sirena del sexo con sus noches de lujuria, Pantoufle y Léon que llegaron como dos bolitas asustadas y ahora son dos tigres impávidos, o aquella vez que... bueno esto no se puede contar, pero aquella otra vez que... ehm no, esto tampoco. Hein, Judith?! Ja!

Si hay que decir la verdad, no echaré de menos la bombona de gas que se acaba mientras me estoy duchando en enero, o subir las tres plantas cargada de bolsas del super más el saco de piedras de los gatos, o los timbres de todos los demás pisos que suenan en el mío (misterio aún sin resolver) o ser atracada en la puerta de casa, pero también digo la verdad cuando digo que aquí dentro dejaré un gran pedazo de mi vida.

Saldré entonces, a coger otro pedazo de vida nuevo que ahí está esperándome. Pero en alguna esquina de mi ser seguiré pensando en mi misma como en la chica que vive en el Born en aquel pisito de paredes amarillas, la de gafitas de pasta negras de cultureta, la que siempre va a todos lados con su vieja bici destruida.




Soundtrack: Ennio Morricone, Nuovo Cinema Paradiso


giovedì 27 settembre 2012

No te esperaba, pero ya que estás, pasa.




Así que ya estás aquí.

Te he sentido llegar, sabes. No es que me hiciera ilusión la idea, y la iba echando cada vez que brotaba en mis pensamientos. Fuera, fuera. Pero sabía que acabarías por ganar. Y desde luego te he sentido.

El día que empezó a oscurecer más pronto de lo que recordaba, te he sentido.
El día que me tocó la primera sandía medio mala comprada en el puesto de frutas de siempre en Santa Caterina, el de la señora linda que nunca me falla.
El día que entré a nadar a la piscina cubierta porque al aire libre tiraba vientecito.
El día que en el vestuario del gimnasio después de la ducha se me puso toda la piel de gallina.
El día que bajé al andén del metro y no tuve la sensación de sofocar.
El día que me acosté y me tuve que levantar a cerrar la ventana.
El día que apoyé la frazada de polar encima de la sábana, esa tan fea con dos caras de gato estampadas (pero que me la quiero mucho porque me la regaló mi madre y porque es suave y calentita).
El día que me fui de la playa porque ya no se estaba a gusto.
El día que me apeteció tomarme una infusión antes de dormir.
El día que ya dejé de poner el despertador a las 7:30 para ir a correr, porque me daba demasiada pereza.
El día que llegué en bicing al trabajo y no estaba sudada.
El día que -sin ni siquiera pararme demasiado a pensarlo- cogí volando mi chaqueta vaquera del armario antes de salir de casa.


Todas estas veces te he sentido y no he opuesto ninguna resistencia a tu llegada (sería inútil).
Y ahora que ya estás aquí, que anuncias tímidamente tu presencia, que aún me dejas la esperanza del último fin de semana en la playa (y de otro, y otro más), mírame: te voy a dejar entrar sin miedo.

Eres para mi el otoño del cambio, de todas las cosas nuevas que están por pasar. A ver si consigo que nos llevemos bien.
Lo voy a intentar. De momento, bienvenido.



Soundtrack: Maika Makovski, Cars that went by


(del balcón de mi casa - por poco tiempo aún - Carrer de la Cirera, el Born, Barcelona)



giovedì 6 settembre 2012

De cuando la realidad supera incluso la más atrevida de las imaginaciones.


Antes que todo respóndeme a esto: ¿Abrirías el portal de tu finca a un desconocido que por el interfono te suelta el rollo siguiente:

“Hola, soy amiga de vuestra vecina de arriba, que me dio las llaves para que le vaya a dar de comer a su gata mientras que ella está de vacaciones, pero resulta que las llaves no son las del piso, y total que no puedo dejar a la gata encerrada cinco días ya que le tengo que dar medicamentos porque está enferma, y bueno necesito llamar a un cerrajero para que me fuerce la cerradura, pero por lo menos quisiera que me abrieras la puerta de abajo...”

Tú, ¿abrirías?
Yo, no.

Pero no empecemos por esto, empecemos por donde hay que empezar: por el principio.

Hoy era un miércoles cualquiera, aunque en realidad si bien me lo pienso, es verdad que una ligera sensación de ansiedad estuvo dando vueltas alrededor mío todo el día, como un mosquito molesto en las noches de verano. Ahora entiendo que esto quería decir que algo tenía que pasar pero, hace unas horas, pensaba que era simplemente uno de mis momentos de cables-cruzados-sin-ninguna-razón.

Había quedado con Ale y Mandorlina para ir al club de Jazz del Taller de Musics a ver una Jam Session, todo eso después de pasar por casa de Judith a darle comida-agua-cariños-pastillita a Akira.
Judith se fue esta mañana a Cerdeña, y lo último que le escribí en Whatsapp fue: “¡Tú tranquila! Está en buenas manos”.

Cuando intenté abrir el portal de abajo sin conseguirlo, lo primero que pensé fue que Judith me había comentado que tenía truco. Pero cuando llevaba 15 minutos intentando, intuí que algo no funcionaba. 
No llevaba el móvil encima -por esto había quedado en la puerta del Jazz Sí alrededor de las siete y media, ocho menos cuarto- así que la única manera era esperarme un ratito a que alguien entrara o saliera para meterme. Y así fue casi enseguida, pero mientras subía las escaleras empecé a pensar: ¿Segundo o tercero? ¿Segundo segunda o segundo tercera? A ver, a ver, ¿dónde es que he entrado el millón de veces que he venido aquí? ¿Dónde es que entramos aquella vez que Judith me engañó para ir a los Encants y al final volvimos cargando entre las dos una caja de herramientas e-nor-me y pesadísima desde el mercado hasta aquí? ¿Tercero segunda o tercero tercera?

Y cual agente del FBI fui mirando las cerraduras de todos los potenciales pisos de Judith, con miedo a que alguien me viera y le entrara la sospecha de qué coño está haciendo esta tía en vestidito mirando cerraduras ajenas. Ninguna encajaba con el tipo de llave que tenía, excepto la del segundo tercera. Guao, demasiado facil, pensé. Pero intenté meterla, y no entraba. Alarma roja, amigo.

No había otra solución: volví a mi casa, llamé a Judith. Apagado. Llamé a Amagoia, intentando disimular los nervios expliqué la situación. Escuché la voz de Judith del otro lado, detrás de Amagoia, decir algo así como “pero si son las llaves de siempre, ¡se las di también a Fernando!” con el tono de quien quiere decir “a ver gilipollas, ¿te han enseñado alguna vez como se abre una puerta?”, entonces asumí que soy una gilipollas y me volví otra vez a intentarlo. Nada.

En la siguiente llamada que recibí de Judith, pidiéndome que le describiera la forma de las llaves, noté que su tono de voz estaba sensiblemente diferente. Estaba más bien en plan “oh-mierda, empiezo a sospechar que me he mandado la mayor cagada de mi vida”.
Y efectivamente.
Las llaves.
Que Judith me había dado.
No eran.
Las llaves.
De aquel.
Piso.

Ahora me estiraría demasiado si añadiera que mientras dejé que ella pensara en una solución tomé un bicing volando y alcancé -años más tarde- a Ale y Amandine en el Jazz Sí, que justamente al llegar ahí volví a hablar con Judith por teléfono y decidimos que lo mejor sería llamar a un cerrajero lo antes posible, que me volví volando en el mismo bicing, que de camino al barrio me crucé a Baptiste en su skate que hizo como que no me había visto (pero di media vuelta con la bici -again- y le seguí hasta que ya no tenía otro remedio que parar y hacer como que me acababa de ver), que mientras aparcaba el bicing me pregunté: ¿y ahora cómo cojones hago para que algún vecino se crea la historia y me abra?

Entonces, ahora volvamos a la pregunta de arriba.
¿Tú le abrirías a una desconocida que te cuenta todo esto?

Pues, Diva (diminutivo de un nombre larguísimo y complicadísimo que le pregunté varias veces sin lograr que se me guardara en el cerebro) me abrió.
Me abrió y bajó a ver quién era, me invitó a subir a su casa mientras que esperaba al cerrajero, a cenar con él y sus amigos (pero tenía el estómago tan cerrado que lo último que tenía era hambre), a tomar cerveza -no, gracias- ¿whiskey? -jajaja, no gracias, pero quizás un poquito de agua sí- ¿Agua? Mulher, não tein agua nissa casa, ¿zumo? -pues venga, va, me tomo un zumo.

Resulta que en casa de Diva estaban algunos amigos músicos, que se habían quedado a dormir después de una roda de Samba la noche anterior. También estaba Valeria, mulata colombiana hija de un guitarrista de Bossa Nova, que un día que vio a Diva tocar junto con Gil en el Parque de la Ciutadella, se acercó para escucharles y para cantar con ellos, y así se hicieron amigos.

Y ahí fue cuando llegó el cerrajero. Le tuve que confesar que no era verdad lo que le había contado por teléfono (que me había dejado las llaves de MI piso adentro - ¡es que no soy capaz de mentir! Y además cuando empezó a preguntarme como estaba hecho el picaporte por el lado interior, ya no sé de qué color me puse), le conté toda la historia, me dijo “a ver si le estoy abriendo la puerta ahora a una...” y no se animó a seguir porque como vio que estaba a punto de llorar de repente me creyó de la manera más absoluta (y es que esto funciona siempre con los hombres) y se puso manos a la obra para abrir aquella puerta, aunque fuera la última acción de su vida.

La abrió, entré, (le pagué al tío – uuuy Judith, ¡cuando veas esa factura que te dejé en la cocina!), Akirita estaba bien y cariñosa, hice todo lo que tenía que hacer y antes de volver a casa bajé a despedirme de mis salvadores y me quedé un rato charlando con ellos.

-Oye, me gustaría escucharte cantar, Valeria, yo adoro la Bossa Nova y me encanta cantar también...
-¿En serio? A veces nos encontramos aquí o en la playa para hacer un poco de musiquinha, venga, ¡nos damos los números y la próxima vez te vienes tú también!

Diva y los demás se iban a la Sala Monasterio para la noche de Forró, y a pesar que me habría parecido la conclusión más digna para un día como este, estaba demasiado cansada de demasiadas emociones como para seguirles en la noite Barcelobrasileira, y me retiré.

Y así es como pasó todo. Verdad verdadera.




Soundtrack: Águas de Março, Tom Jobim com Elis Regina





lunedì 27 agosto 2012

Post-Orgasmic Tristesse




È l'estate della moda del “Free Pussy Riot”.
Ma poi, qualcuno ha davvero mai ascoltato una canzone delle Pussy Riot? L'ennesima rivoluzione passeggera, e tra un mese queste Che Guevaras schitarranti saranno già a marcire nell'ultimo cassetto della memoria mondiale, come decine, centinaia di altri più o meno definibili prigionieri politici.

È l'estate successiva a quella del 15-M, l'estate che ne ha decretato il fallimento più eclatante. Adesso non è più in, il 15-M. Quella era la moda rivoluzionaria del 2011.

È l'estate dei culi tersi che campeggiano nei cartelloni delle vetrine delle farmacie, come l'estate scorsa e quella prossima, a pubblicizzare miracolose creme anticellulite. Perché senza cellulite saremo tutte più belle, e quindi (conseguenza logica, diretta e inconfutabile) più felici. Non fa una piega.

È l'estate della Spagna che brucia, dell'Europa che si sgretola, di Berlusconi che magari torna a candidarsi, di Assange nell'Ambasciata dell'Ecuador, degli Europei di calcio e delle Olimpiadi venuti come per miracolo a farci dimenticare che ce ne stiamo andando tutti affanculo. 

È l'estate dei festival uno dietro l'altro e delle mie amiche tutte incinte.

È l'estate del perdono. Ai miei nemici, a chi mi ha fatto del male: principalmente a me stessa.
È l'estate delle seconde possibilità. A chi non c'è stato, a chi voleva esserci ma non gliel'ho permesso, a Barcellona che in fondo non è poi così malaccio, a tutte le cose che sognavo di fare e che mi sono proibita. E ancora una volta: a me stessa.
È l'estate del concedere, del concedermi.

È l'estate della malinconia post-orgasmica, delle mutandine lasciate a casa e sotto-il-vestito-niente, del sì, no, forse, scherzavo, o no? ma poi chissenefrega, è l'estate in cui ancora non ho risolto niente ma magari non ho nemmeno niente di così urgente da risolvere, è l'estate del lasciare andare piuttosto che trattenere, dell'accettare piuttosto che allontanare, è l'estate del cambiamento, della riscoperta, del capitolo chiuso capitolo aperto, del fammi un po' vedere cosa c'è ancora di buono da assaggiare in questa vita.

È l'estate di stop, respira, guardati intorno con calma. Beh, non sarà perfetto, niente sarà mai perfetto, ma vedi? Non c'è male cazzo, rilassati: non c'è proprio niente male.




Soundtrack: Calexico, tutta la discografia


(Carrer dels Flassaders, el Born, Barcelona)